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So che non dovrei, ma spesso capita di abbinare a fatti, anche tragici, eventi della propria esistenza, anche molto dissonanti con il contesto del dato di partenza.
La morte di Mario Luzi, il 28 febbraio del 2005, arrivò in un periodo della mia vita molto intenso e surreale, che, per alcuni versi, assomiglia alla realtà di questi mesi convulsi. Erano giorni in cui tutto poteva succedere. Spesso accadeva.
Incontri, suggestioni, parole. Tutto rivive nella memoria vivida di quei mesi, destinati ad una fine breve, ma di forte tenuta.
Dunque, della morte di Mario Luzi ho un piccolo, tragicomico, ricordo.
Frequentavo ancora l’Università, ultimi tempi. Petrarca e D’Annunzio. Insieme, nello stesso corso. Canzoniere e Epistolario.
“Frammenti di anime” profondamente diverse.
La sera prima avevo letto la notizia della morte di Luzi. Un poeta intenso, meditativo, che avevo imparato ad amare tardi, ma profondamente.
Ecco, durante il viaggio in treno, l’imprevisto. Appoggiando catatonica la mia mano lungo l’estremità della porta scorrevole, non avevo fatto in tempo ad accorgermi che il controllore l’aveva aperta, trascinando con sè il mio dito.
Un dolore intenso, secco. Una frustata improvvisa.
Il sangue, la paura, il senso di panico amplificavano tutto. Anche una ferita che poi si rivelò meno profonda di quello che immaginavo.
Dopo la peregrinazione per trovare una medicazione – nella Torino addormentata ma frenetica delle 8 di mattina – arrivai finalmente a lezione.
Lì, il Professore, entrò, sconvolto. Piangeva la scomparsa di Luzi. Gli occhi lucidi. Amicizia, opera, ne celebrava la grandezza.
Poi un occhio, veloce, alla mia mano fasciata.
Con la stessa enfasi mi guardò e disse (aula affollata): “Ti sei fatta male?”
Il dramma di Luzi cedeva il passo alla mia tragicomica avventura.
Mi vergognai come una ladra.
Mi vergogno ancora, abbinando la scomparsa di un genio poetico di tale portata ad un ricordo così buffo.
Così, per sdebitarmi, trascriverò alcuni versi per onorare, finalmente, la scomparsa di un poeta fondamentale del nostro Novecento.
Scusa, Mario.
(Se musica è la donna amata)
da “Avvento Notturno”
Ma tu continua e perditi, mia vita,
per le rosse città dei cani afosi
convessi sopra i fiumi arsi dal vento.
Le danzatrici scuotono l’oriente
appassionato, effondono i metalli
del sole le veementi baiadere.
Un passero profondo si dispiuma
sul golfo ov’io sognai la Georgia:
dal mare (una viola trafelata
nella memoria bianca di vestigia)
un vento desolato s’appoggiava
ai tuoi vetri con una piuma grigia
e se volevi accoglierlo una bruna
solitudine offesa la tua mano
premeva nei suoi limbi odorosi
d’inattuate rose di lontano.