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Parole senza rimedi

~ Manuela. Una col vizio di scrivere

Parole senza rimedi

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“Gli anni” di Annie Ernaux (e le immagini, l’estate, i ricordi).

09 venerdì Ott 2015

Posted by mallarmeana.mb in impressionandomi, Letteratura "fai da me", libri, Libri belli, recensioni, riflessioni riflesse

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Ernaux, Gli anni

“Tutte le immagini scompariranno.” Gli anni, Annie Ernaux, L’Orma editore, 2015.

L’estate è soltanto un ricordo. Un accumulo di immagini e parole che rotolano piano verso il fondo, si fanno sedimento, spesso riemergono, ma, come spesso accade nei sogni, non si ripropongono mai come sono state veramente.

Si reinventano, ogni volta.

Luglio, caldo e feroce, bellissimo e crudele. Giorni di fiato corto e speranze brevi.

Dopo il periodo di studio, più matto che disperato, mi è finalmente capitato tra le mani “Gli anni” di Annie Ernaux.

Desideravo leggerlo da un po’, ma lo conservavo lì, da parte, per il momento in cui sarei stata finalmente libera, come fanno i bambini con i giochi più belli (spesso, poi, dimenticandosene).

Della stessa autrice avevo letto, qualche tempo fa, quel bellissimo libro che è “Il posto” di cui mi aveva colpito la perfezione della semplicità, nello stile, nella parola asciutta ma evocativa, nel racconto di una vicenda individuale che, pur lontana nel tempo e nello spazio, avevo sentito vicina, in modo quasi doloroso. (Era l’anno in cui, dopo aver vinto un concorso pubblico, avevo acquisito il mio posto da docente a tempo indeterminato in un ordine di scuola che non amavo, pensavo di dovermi trasferire lontano, sentivo il mondo della mia infanzia e adolescenza come un inutile fossile, cose così).

“Gli anni” rappresenta una sorta di viaggio nella storia individuale dell’autrice, che si intreccia inevitabilmente con la Storia ufficiale, il Novecento, con i grandi eventi, estendendosi, fino quasi a confondersi, con il racconto delle esistenze di tutti. Un viaggio con un flusso particolare, che annoda passato e futuro a un presente che pare senza forma, non praticabile.

La Ernaux ricama questa “autobiografia impersonale”, in cui è il “noi”, non l'”io” il vero soggetto, lasciandoci vere e proprie “immagini”, istantanee dei fatti, delle parole e del tempo – che si fa effimero e fragile – delle persone e dei luoghi di tutta una vita, mischiando le carte del fondamentale e del superfluo. Il tutto con un ritmo che mi ha subito avvolto, donandomi quella sensazione costante di vicinanza, quasi di “spina” conficcata nel profondo, come se quella fosse anche un po’ la mia storia, con le parole, le note, i volti che si sovrappongono nella memoria.

(E intanto, mentre le pagine scorrevano veloci, c’era chi, poco lontano da casa, se ne andava per sempre, un mattino caldo d’estate, senza nemmeno salutare.)

“Per la prima volta quell’anno ho colto il senso terribile della frase si vive una volta sola.”

Vicinanza e perdita, bisogno di “salvare”, in qualche modo, qualcosa: Annie Ernaux annota, cataloga, nomina le cose, rapisce e ferma, a tratti, il flusso del tempo, come in un immenso inventario appuntato su un foglio volante, scritto all’imperfetto, regalandoci un libro bellissimo.

“La distanza che separa il passato dal presente si misura forse dalla luce che scivola sui volti, proietta le ombre, disegna le pieghe di un vestito di una foto in bianco e nero; dalla sua chiarezza crepuscolare, qualsiasi sia l’ora in cui sia stata scattata”.

L’estate è lontana, ma le sue parole sono presenti. Le lascio scivolare sul fondo, ne abbandono alcune, ne salvo altre. Trattengo il bello, il dolore, tutto, con le unghie, sicura di non poter fermare ciò che accade.

Un autunno dalle luci tenui regala altre immagini da cancellare, lentamente.

Si può giocare con i ricordi, respirare.

Perdersi. Ancora.

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Una bolla. (Leggendo “La caduta” di Diogo Mainardi.)

27 giovedì Mar 2014

Posted by mallarmeana.mb in Letteratura "fai da me", libri, riflessioni riflesse

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Una bolla. Chiusa a chiave.

Quando penso a certi episodi della vita mi capita di non ricordarne nitidamente i contorni. Come se la memoria, di solito buona, li avesse ovattati, o scagliati in una profondità innaturale, per cui, paradossalmente, emergono particolari inutili – un vestito, una frase, un gesto di vent’anni fa – e affondano elementi rilevanti.

Riposano, in una bolla chiusa a chiave.

Pochi mesi fa ho letto quel bellissimo libro che è “La caduta” di Diogo Mainardi.

Era l’inizio di gennaio, un inverno mite alla finestra e, pagina dopo pagina mi lasciavo prendere dal calore di ogni frase, ogni parola che pesavo ed aveva la forza di un macigno, denso ma bello, e lieve, pur scavato nell’abisso del dolore.

Ad un certo punto mi sono fissata su un’immagine in una pagina del libro. Fissavo e pensavo a dove l’avevo già vista. Una scossa improvvisa, come un risveglio.

La bolla, aperta.

Guardavo quell’immagine ed ero lì, tre, quasi quattro anni fa, una vita, un mondo diverso che ho assorbito male, rigettato.

Un caso “delicato”. La scuola primaria, un sostegno.

La paura, il senso di inadeguatezza. Gli occhi di W. Fissi nei miei.

La mia superbia che si infrange contro la mia incapacità.

W. ha gli occhi che parlano. Lei non parla. Lei si muove a malapena.

“Un vegetale” dicono, quelli che non capiscono nulla. W. ha avuto una paralisi cerebrale.

E tu devi insegnare, dedicarti a qualcosa, a qualcuno che non conosci. Non conosci lei, non sai più chi sei veramente.

Lei ride. Capisce, ti guarda.

E spesso ti sbava sulla mano. I primi giorni hai paura, ma poi lavori, ti scoraggi, ridi, ti immergi in quel mondo e quando è finita piangi.

Vorresti non lasciarla mai.

Ma il lavoro è finito e lei avrà un’altra insegnante, più specializzata, sicuramente più brava.

E tu sei già lì che pensi ad altro.

E ora che sono passati tre, quasi quattro anni, sei lì che leggi “La caduta” e senti che tu hai sfiorato quello che da fuori è solo dolore, che dentro è anche gioia, grande.

Tu non sei più quella che eri, sei passata attraverso la caduta e ti ha fatto crescere ma l’hai dimenticata.

Sono passati molti giorni e non ti sei più fatta sentire, non sai nulla di lei, se è cresciuta, se ha imparato quel che tu hai tentato, forse fallito.

All’ultima pagina del libro avevo un nodo in gola. Sentivo che la bolla era aperta, i ricordi liberi, facevano male.

Ho preso il telefono e ho mandato un messaggio.

“Sono Manuela, è da tanto tempo che non mi faccio sentire. Come state?”

La madre risponde immediatamente.

Organizza un incontro.

Sono andata a trovarla, impacciata come un fidanzatino al primo appuntamento. Un regalo nella borsa – cosa regali a una bambina di dieci anni che non conosci più? – e tanta paura.

Era l’ora della merenda e quando sua madre ha aperto la porta e l’ho vista ho capito perché ero lì.

In un attimo, la bolla scoppiata, la mia caduta compiuta, gli anni di insegnamento che pesavano come macigni sulla mia scarsa competenza umana.

W. sorrideva, seduta. Raggiante.

Abbiamo mangiato, scherzato, osservato i suoi quaderni.

Per tutto il tempo mi ha guardato.

Sua madre ha tirato fuori una foto di quattro anni fa, siamo noi due, ridiamo. La foto era molto impolverata.

Continua a guardarmi con curiosità. Devo andare.

 

Quando sono tornata, un tramonto freddo illuminava la strada di casa, le montagne.

Ero stranamente felice.

Ho preso il libro dimenticato distrattamente sul divano e l’ho sistemato nella libreria.

So che non mi ha riconosciuto. Ma a me è bastato riconoscere quei giorni, in lei.

“Saper cadere ha molto più valore che saper camminare” D. Mainardi, “La caduta”, Einaudi, 2013

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