Stamattina ho accompagnato mia madre a espletare delle pratiche burocratiche. Siamo entrate in un caseggiato enorme, con i segni dell’abbandono che emergevano in modo prepotente. La via per l’ufficio era uno slalom tra gli scatoloni abbandonati, con documenti sparsi, accatastati, con la cura di chi vorrebbe affrontare tutto e subito, ma non ha gli strumenti.
Ad un certo punto, tra le macerie di questo luogo è sbucato un gatto. Flessuoso, la coda lunga e setosa, quasi sembrava dimostrare che quel luogo era ormai solo il suo.
Mia madre e l’operatrice parlavano, pianificavano date e appuntamenti. Io guardavo inebetita l’animale, che con un balzo aveva raggiunto la finestra affacciata sul cortile. Immobile, guardava fuori.
L’immagine dell’attesa. Chissà poi di cosa.
Quando ci siamo alzate, il gatto è corso fuori, perdendosi tra le ortensie e la legnaia.
Il tempo ha ricominciato a scorrere. Fuori c’era un caldo ancora estivo. Ho messo in moto l’auto e mia madre mi ha chiesto: “Per te va bene?”
Ho annuito. Ma chissà poi per cosa.