Stamattina mi sono buttata.
Avevo la classe alle prime due ore, le più tragiche per sonno e conseguenze del weekend.
Il canto di Ugolino. Il più horror, il più splatter che Dante consegni al lettore, o quasi. Inizio a spiegare sperando che la classe tutta maschile, oggi, venga attirata dai particolari più oscuri della storia.
Il ghiaccio, il morso, il divorare, l’asciugarsi la bocca con i capelli del nemico. Dante l’ha scritta proprio così, ce la consegna intatta nel suo orrore e vedo che qualcuno storce il naso. Qualcuno rimane a bocca aperta, ma questa volta la maggior parte ascolta, vuole sapere come è andata.
Ogni volta in cui leggo Dante scopro qualcosa. L’Inferno accende in me una sorta di nostalgia per la bellezza e una passione che spero di trasmettere in grani a chi ha la sorte di avermi davanti.
C’è una serie di versi, in questo canto, su cui mi fermo sempre e sempre mi illumina. Ugolino si rivolge a Dante dopo avergli raccontato del sogno premonitore in cui si prefigurava la sua morte e quella dei figli.
Si gira verso di lui e lo ammonisce:
“Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli
pensando ciò che ‘l mio cor s’annunziava
e se non piangi, di che pianger suoli?”
Già. Di che pianger suoli. Guardavo i visi dei ragazzi e capivo che qualcosa, un minimo, per un istante, avrebbe, aveva scosso anche loro.
Le lacrime, questo grande mistero. Chissà se piangono, mi sono chiesta, e per cosa. Chissà per quanto continuerò anche io, a piangere, e se ci sia un’età in cui si smetta definitivamente, oppure se tutto continui infinitamente a trasformarsi.
Ugolino ammonisce Dante e si arriva al racconto della morte dei figli e del presunto cannibalismo. I più sbruffoni ridono, nessuno è distratto.
Qualcuno mi chiede come mai non sia stata girata una versione cinematografica “significativa” della Commedia, o un horror dedicato all’episodio in questione.
La drammaticità della storia li colpisce, rimaniamo per pochi istanti bloccati nel ghiaccio anche noi, immobili nelle lacrime che non abbiamo.
A volte la letteratura riesce a fare miracoli.
Poi, la campanella, l’intervallo, la vita che va.
“E se non piangi, di che pianger suoli?”