“Tacere. Imparare.
Rileggere.
Mantenere il segreto.
Aspettare.
Non è appassito il mare.
Ci toccherà ricominciare.”
(Con un verso liberamente ispirato all’amatissimo Elio Pagliarani)
28 martedì Nov 2017
Posted Letteratura "fai da me", Mia poesia, poesia mia, Senza categoria
in“Tacere. Imparare.
Rileggere.
Mantenere il segreto.
Aspettare.
Non è appassito il mare.
Ci toccherà ricominciare.”
(Con un verso liberamente ispirato all’amatissimo Elio Pagliarani)
09 venerdì Ott 2015
“Tutte le immagini scompariranno.” Gli anni, Annie Ernaux, L’Orma editore, 2015.
L’estate è soltanto un ricordo. Un accumulo di immagini e parole che rotolano piano verso il fondo, si fanno sedimento, spesso riemergono, ma, come spesso accade nei sogni, non si ripropongono mai come sono state veramente.
Si reinventano, ogni volta.
Luglio, caldo e feroce, bellissimo e crudele. Giorni di fiato corto e speranze brevi.
Dopo il periodo di studio, più matto che disperato, mi è finalmente capitato tra le mani “Gli anni” di Annie Ernaux.
Desideravo leggerlo da un po’, ma lo conservavo lì, da parte, per il momento in cui sarei stata finalmente libera, come fanno i bambini con i giochi più belli (spesso, poi, dimenticandosene).
Della stessa autrice avevo letto, qualche tempo fa, quel bellissimo libro che è “Il posto” di cui mi aveva colpito la perfezione della semplicità, nello stile, nella parola asciutta ma evocativa, nel racconto di una vicenda individuale che, pur lontana nel tempo e nello spazio, avevo sentito vicina, in modo quasi doloroso. (Era l’anno in cui, dopo aver vinto un concorso pubblico, avevo acquisito il mio posto da docente a tempo indeterminato in un ordine di scuola che non amavo, pensavo di dovermi trasferire lontano, sentivo il mondo della mia infanzia e adolescenza come un inutile fossile, cose così).
“Gli anni” rappresenta una sorta di viaggio nella storia individuale dell’autrice, che si intreccia inevitabilmente con la Storia ufficiale, il Novecento, con i grandi eventi, estendendosi, fino quasi a confondersi, con il racconto delle esistenze di tutti. Un viaggio con un flusso particolare, che annoda passato e futuro a un presente che pare senza forma, non praticabile.
La Ernaux ricama questa “autobiografia impersonale”, in cui è il “noi”, non l'”io” il vero soggetto, lasciandoci vere e proprie “immagini”, istantanee dei fatti, delle parole e del tempo – che si fa effimero e fragile – delle persone e dei luoghi di tutta una vita, mischiando le carte del fondamentale e del superfluo. Il tutto con un ritmo che mi ha subito avvolto, donandomi quella sensazione costante di vicinanza, quasi di “spina” conficcata nel profondo, come se quella fosse anche un po’ la mia storia, con le parole, le note, i volti che si sovrappongono nella memoria.
(E intanto, mentre le pagine scorrevano veloci, c’era chi, poco lontano da casa, se ne andava per sempre, un mattino caldo d’estate, senza nemmeno salutare.)
“Per la prima volta quell’anno ho colto il senso terribile della frase si vive una volta sola.”
Vicinanza e perdita, bisogno di “salvare”, in qualche modo, qualcosa: Annie Ernaux annota, cataloga, nomina le cose, rapisce e ferma, a tratti, il flusso del tempo, come in un immenso inventario appuntato su un foglio volante, scritto all’imperfetto, regalandoci un libro bellissimo.
“La distanza che separa il passato dal presente si misura forse dalla luce che scivola sui volti, proietta le ombre, disegna le pieghe di un vestito di una foto in bianco e nero; dalla sua chiarezza crepuscolare, qualsiasi sia l’ora in cui sia stata scattata”.
L’estate è lontana, ma le sue parole sono presenti. Le lascio scivolare sul fondo, ne abbandono alcune, ne salvo altre. Trattengo il bello, il dolore, tutto, con le unghie, sicura di non poter fermare ciò che accade.
Un autunno dalle luci tenui regala altre immagini da cancellare, lentamente.
Si può giocare con i ricordi, respirare.
Perdersi. Ancora.
06 martedì Gen 2015
Posted Letteratura "fai da me", Libri belli, recensioni, riflessioni riflesse
inIl primo post dell’anno è sempre terribile.
Non che gli altri siano meglio, però, nel primo, be’, c’è sempre l’idea che uno debba metterci i propositi, le speranze, i desideri per l’anno nuovo.
Bene, io non spero un bel niente.
Gli ultimi giorni dell’anno sono stati particolarmente impegnativi.
Ho bevuto troppo, mangiato, ho avuto la febbre, una reazione allergica che mi ha mandata al pronto soccorso, sono stata molto sul mio divano, ho visto dei bei film, dei brutti film, ho visitato l’intero Polo Reale di Torino, capito che amo sempre quella città, e ho letto libri che mi sono piaciuti moltissimo.
Uno di questi è “A pesca nelle pozze più profonde” di Paolo Cognetti (Minimum Fax, 2014). Un libro che parla di racconti, del leggere racconti, del piacere di leggerli e di indagare anche cosa ci sia dietro, dentro, come se la narrazione fosse una scatola e ci si potesse mettere la mano, il viso dentro a indagarne il meccanismo, più o meno segreto.
Ammetto di amare da sempre il racconto, ho iniziato da piccola a leggerli, prima, credevo, per una forma di pigrizia, poi, invece, perché ho capito di trovarmi bene in quella dimensione che si presenta non solo come breve ma anche come “incompleta” che “comincia dopo che qualcosa è già accaduto, finisce quando qualcos’altro deve ancora accadere.” eppure così ricca, quasi magica.
Man mano che procedevo con la lettura del libro avevo voglia di leggere (o rileggere) i racconti degli autori che letteralmente si “incontrano” tra le pagine, Carver, Munro, Fitzgerald, Grace Paley, per fare solo alcuni nomi e di farlo subito, come se un’urgenza mi riportasse a un compito lasciato a metà. Come se il sentirli raccontare, cosa che Cognetti sa fare bene, li avesse improvvisamente illuminati di una luce nuova.
E c’è tanta luce in questo libro (“Come cade la luce e ci mostra il mondo, le domande nascoste dove la luce non arriva: di che dovrei scrivere se non di questo?”), c’è il fiume, c’è, a tratti, un vento freddo che sferza il viso, la montagna. Ci sono case che sembrano parlare di noi. (“La casa è un corpo e ciò che contiene assomiglia, più che all’anima, a una malattia covata a lungo e destinata […] a consumarlo.”) Potere dei racconti.
Poi c’è Sofia. Un personaggio che amo e che ho ritrovato con piacere.
C’è la sua storia che continua, ci sono nuovi dettagli, come finestre aperte all’improvviso sulla sua vita. C’è la sottile malinconia che mi lascia leggere di lei.
C’è un racconto su una schiena, che ho riletto più volte. (La schiena mi appassiona sempre, è un mio punto debole.)
Mi piace molto l’idea che un personaggio abbia un’esistenza che oltrepassa i confini di un libro. Sarà che da sempre mal sopporto i contorni troppo definiti, chi lo sa. O forse perché è bello, e basta.
“Le cinque meno dieci erano l’ora più triste, quella in cui tornavano i fantasmi del passato.”
Ecco, come ho detto prima, non spero grandi cose per questo nuovo anno. Forse, di continuare a leggere libri così, che hanno il potere, meraviglioso, di mettere voglia di leggerne altri.
27 giovedì Mar 2014
Una bolla. Chiusa a chiave.
Quando penso a certi episodi della vita mi capita di non ricordarne nitidamente i contorni. Come se la memoria, di solito buona, li avesse ovattati, o scagliati in una profondità innaturale, per cui, paradossalmente, emergono particolari inutili – un vestito, una frase, un gesto di vent’anni fa – e affondano elementi rilevanti.
Riposano, in una bolla chiusa a chiave.
Pochi mesi fa ho letto quel bellissimo libro che è “La caduta” di Diogo Mainardi.
Era l’inizio di gennaio, un inverno mite alla finestra e, pagina dopo pagina mi lasciavo prendere dal calore di ogni frase, ogni parola che pesavo ed aveva la forza di un macigno, denso ma bello, e lieve, pur scavato nell’abisso del dolore.
Ad un certo punto mi sono fissata su un’immagine in una pagina del libro. Fissavo e pensavo a dove l’avevo già vista. Una scossa improvvisa, come un risveglio.
La bolla, aperta.
Guardavo quell’immagine ed ero lì, tre, quasi quattro anni fa, una vita, un mondo diverso che ho assorbito male, rigettato.
Un caso “delicato”. La scuola primaria, un sostegno.
La paura, il senso di inadeguatezza. Gli occhi di W. Fissi nei miei.
La mia superbia che si infrange contro la mia incapacità.
W. ha gli occhi che parlano. Lei non parla. Lei si muove a malapena.
“Un vegetale” dicono, quelli che non capiscono nulla. W. ha avuto una paralisi cerebrale.
E tu devi insegnare, dedicarti a qualcosa, a qualcuno che non conosci. Non conosci lei, non sai più chi sei veramente.
Lei ride. Capisce, ti guarda.
E spesso ti sbava sulla mano. I primi giorni hai paura, ma poi lavori, ti scoraggi, ridi, ti immergi in quel mondo e quando è finita piangi.
Vorresti non lasciarla mai.
Ma il lavoro è finito e lei avrà un’altra insegnante, più specializzata, sicuramente più brava.
E tu sei già lì che pensi ad altro.
E ora che sono passati tre, quasi quattro anni, sei lì che leggi “La caduta” e senti che tu hai sfiorato quello che da fuori è solo dolore, che dentro è anche gioia, grande.
Tu non sei più quella che eri, sei passata attraverso la caduta e ti ha fatto crescere ma l’hai dimenticata.
Sono passati molti giorni e non ti sei più fatta sentire, non sai nulla di lei, se è cresciuta, se ha imparato quel che tu hai tentato, forse fallito.
All’ultima pagina del libro avevo un nodo in gola. Sentivo che la bolla era aperta, i ricordi liberi, facevano male.
Ho preso il telefono e ho mandato un messaggio.
“Sono Manuela, è da tanto tempo che non mi faccio sentire. Come state?”
La madre risponde immediatamente.
Organizza un incontro.
Sono andata a trovarla, impacciata come un fidanzatino al primo appuntamento. Un regalo nella borsa – cosa regali a una bambina di dieci anni che non conosci più? – e tanta paura.
Era l’ora della merenda e quando sua madre ha aperto la porta e l’ho vista ho capito perché ero lì.
In un attimo, la bolla scoppiata, la mia caduta compiuta, gli anni di insegnamento che pesavano come macigni sulla mia scarsa competenza umana.
W. sorrideva, seduta. Raggiante.
Abbiamo mangiato, scherzato, osservato i suoi quaderni.
Per tutto il tempo mi ha guardato.
Sua madre ha tirato fuori una foto di quattro anni fa, siamo noi due, ridiamo. La foto era molto impolverata.
Continua a guardarmi con curiosità. Devo andare.
Quando sono tornata, un tramonto freddo illuminava la strada di casa, le montagne.
Ero stranamente felice.
Ho preso il libro dimenticato distrattamente sul divano e l’ho sistemato nella libreria.
So che non mi ha riconosciuto. Ma a me è bastato riconoscere quei giorni, in lei.
“Saper cadere ha molto più valore che saper camminare” D. Mainardi, “La caduta”, Einaudi, 2013
29 venerdì Nov 2013
“Le persone sono corpo, massa e raffiche di idee incontrollabili.” L. Brancaccio – Stanno tutti bene tranne me.
Un giovedì di novembre.
Un pomeriggio strano. Una telefonata inattesa, tensioni, nodi burocratici ed incombenze. Dubbi sospesi.
Una chiavetta persa, il lavoro di anni, le foto dell’ultima vacanza in balìa di qualche mano sconosciuta, altrove.
Una pila di compiti da correggere grida vendetta dalla scrivania. Un freddo acuto mi prende alle braccia, al viso. Dovrei vestirmi di più.
Invece di lavorare prendo in mano quel libro.
Mi sono ripromessa di non leggerlo subito. Ho finito da poco “Dieci dicembre” di George Saunders (Minimum Fax, 2013) e ne sono ancora invaghita, presa, sorpresa. Mi manca. (Chissà se riuscirò a scriverne qualcosa, mi ronza nella testa da giorni ma non ho le parole, non quelle che vorrei.)
Poi invece lascio definitivamente il compito che ho tra le mani. Inizio a leggere.
“Stanno tutti bene tranne me”, di Luisa Brancaccio.
Quando l’ho acquistato non sapevo bene cosa mi aspettasse, mi suonava particolarmente familiare il titolo.
Stanno tutti bene. Tranne me. (Quante volte l’ho pensato, presa da me soltanto.)
Poche pagine e sono lì, con Margherita, ne immagino il viso, i gesti lenti, la fame di sonno e di realtà oltre l’apparenza, le storie che si intrecciano alla sua, la difficoltà del quotidiano. Immagino lo psicanalista, i cani, i figli e i mariti, gli orti, il dolore. Questo lo sento direttamente sulla pelle. Si tocca, si accarezza. Un pugno nello stomaco. Un dolore così “normale” (“Il dolore è come deve essere, sordo e pulsante, come di ossa rotte”) che traspare dalle pagine e potrebbe essere tuo. Lo vivi. Distrugge e si può superare, si tira fuori e si libera, diventando altro da sé, qualcosa di nuovo, vitale.
Le parole trascorrono veloci e mi prendono nel vortice, ed è una morsa fisica. Alcune immagini si appiccicano addosso, vischiose, ed altre scivolano leggere come le foglie che si agitano, in giardino, in una notte di luna piena (ed io son sulla panchina con ragazza, cane e psicanalista).
Continuo a leggere, mi fermo. Ad un certo punto anche io mi spezzo, a metà, con Margherita.
Ho le mani fredde, tremo, dovrei mettermi una maglia, ma la forza di una scrittura così potente, forte e delicatissima insieme, mi impedisce di smettere, nonostante sia sola in casa e debba finire delle cose al più presto.
“Il pomeriggio è ancora lì, grigio e silenzioso, liquido come mercurio.”
Le parole sono lì, le vedi, le puoi sentire. Dicono tutto.
Mi toccano, lambiscono i pensieri, colpiscono come schiaffi.
“Pensare. Ricapitolare tutta la felicità dissolta nella vita quotidiana.”
Ed io continuo a seguire l’oscillare di queste vicende, il loro sfiorarsi tra la normalità e l’abisso.
Quando arrivo all’ultima pagina so già che mi stanno mancando anche queste storie. Le fisso in un’istantanea, le porto dentro.
Vado a dormire e sto bene, banalmente bene. Ho il cuore che batte forte, la schiena un po’ inarcata, in tensione.
Un po’ di tempo fa parlavo con una persona che mi ha detto: “Non esistono libri tristi. Esistono libri con momenti tristi.”
E spesso sono bellissimi.
Luisa Brancaccio, Stanno tutti bene tranne me, Einaudi, 2013.
05 giovedì Set 2013
Posted Letteratura "fai da me", Poesia che amo, Poeti, Tristissima copia
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Poi, oggi, appena finito di pensare alla vita simulata, mi stavo mettendo gli orecchini – degli orecchini neri, pendenti – e ho aperto una pagina con un link a una poesia di Mario Luzi.
Una poesia come una fucilata.
Un’emozione improvvisa, quella delle sorprese, dello stupore.
Bella, così bella che ho detto “scriverla io, una poesia così”. Eh.
L’ho riletta una, due volte. Una volta a voce alta, come mi insegnarono tanto tempo fa.
Il sole, l’assenza (“l’eclissi di te”), la stanza. Il nulla.
La perfezione dei versi inanellati a raccontare un’emozione.
Mi piace il suono delle parole, l’ho già detto tante volte. E’ una delle mie tante debolezze.
Poi ho chiuso tutto e sono uscita di casa.
L’aria si infilava nella trama del vestito leggero, le parole nella testa.
La bellezza.
Una fucilata.
«Non andartene,
non lasciare l’eclisse di te
nella mia stanza.
Chi ti cerca è il sole,
non ha pietà della tua assenza
il sole, ti trova anche nei luoghi
casuali
dove sei passata,
nei posti che hai lasciato
e in quelli dove sei
inavvertitamente andata
brucia
ed equipara
al nulla tutta quanta
la tua fervida giornata.
Eppure è stata,
è stata,
nessuna ora sua
è vanificata».
Mario Luzi
03 martedì Set 2013
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Ieri stavo leggendo – il sole fuori, l’aria frizzante della fine dell’estate e una strana inquietudine dentro, tra l’attesa e qualcosa di estremamente malinconico – leggevo “Centuria” di Giorgio Manganelli e, ad un certo punto, mi è sembrato che una frase facesse riferimento a qualcosa che avevo pensato anche io, anche se non mi ricordo quando.
In realtà, mi è capitato almeno altre tre volte, fino ad ora. Ci sono frasi che ci risvegliano qualcosa dentro e, paradossalmente, sembra che parlino di noi (Potere della letteratura, dicono, altri direbbero “Vai da uno bravo”).
“Torna a coricarsi, ripensando al proprio corpo, quel corpo che per un breve istante egli aveva dimenticato di indossare”.
Il corpo come un vestito. Già.
Improvvisamente un pensiero coltivato in silenzio è riemerso con prepotenza.
Il corpo. Materiale che contiene e lascia trasparire.
Pelle, capelli, muscoli e occhi.
Bocca.
Un vestito da indossare. Il più difficile, perchè non si sceglie.
Morbido all’inizio, delicato, lieve, si complica con gli anni.
Su tessuti diversi ognuno scrive le sue storie. Parole, volti, voci, silenzi. Alcuni restano impressi fuori – le cicatrici di quando ci sbucciavamo le ginocchia, da bambini – altri riaffiorano in una ruga, che ci fa più forti, che ci scopre deboli.
Non sempre il vestito ci calza alla perfezione. A volte è troppo stretto, altre volte enorme, ingombrante, o è bello quando dentro stiamo malissimo. Capita.
La pelle è un vestito sensibile, a cui piace il calore. Un abito ricamato dai giorni, la cui trama parla di noi.
Trovare la misura giusta è il problema di un’esistenza intera.
Ieri leggevo “Centuria” ed ho pensato al corpo, alla sua forza, alla fragilità. Ci ho pensato e sarebbe stato bello osservarlo, da fuori.
Il corpo come un vestito.
Poi ho continuato a leggere e mi è venuta sete, e ho guardato un’immagine riflessa nella finestra.
Il sole era così bello che mi sembrava tremendo.
La vita era lì, ancora tutta da indossare.
29 giovedì Ago 2013
In questi giorni è tornata, dopo un periodo di pausa, quella difficoltà a prendere sonno, alimentata dai pensieri, dalle parole, dalle ansie (l’arrivo di settembre, come ogni anno, porta sempre nuovi turbamenti).
Con l’insonnia sono riapparse le frasi esplose che vagano – lacerti, brandelli di citazioni – nella mente, si rincorrono e spesso si rassegnano a non trovare collocazione.
Ieri sera pensavo alle cose. Cioè, pensavo che le cose non sono mai come appaiono in superficie – che detto così sembra una banalità, ma non lo è – e che ogni situazione andrebbe analizzata meglio.
Ma non abbiamo tempo, o il desiderio di farlo.
Pensavo a questo e mi è venuta in mente una frase “Il Petrarca non si vede subito” e mi ricordavo di averla citata nella mia tesi di laurea, e mi sembrava l’avesse detto Ungaretti e mi pareva la metafora più adatta per quello a cui stavo pensando.
“Il Petrarca non si vede subito” nella poesia, ma c’è.
Ecco, come le cose di cui parlavo.
Conosciamo persone, situazioni, le viviamo, crediamo di saperle, di conoscere il contenuto più profondo, ma il più delle volte non è così.
Non dormivo e mi chiedevo se il nostro vivere sia un equilibrio precario o un precariato equilibrato tra il cercare e l’accontentarsi.
Probabilmente non indaghiamo abbastanza, in noi, soprattutto.
Che sia paura, o noia, non è dato a me dirlo.
Pensavo, poi fortunatamente mi sono addormentata.
Stamattina ho trovato la citazione che mi ronzava per la testa ieri sera.
Era veramente Ungaretti.
“Chi è stato in paesi musulmani sa che la donna usa vestire tutto il corpo, compreso il viso,
salvo gli occhi.
Non per applicare la statistica anche alle cose della poesia, ma sono moltissime le volte
che il Petrarca parla d’occhi. È un’ossessione. È parola usata come se volesse con essa dare
fondo al vocabolario.
Il Petrarca non si vede subito. Esige lunga esperienza, e dura, rara e complessa per divenirvi familiare; una grande acuità, una grande fissità dello sguardo mentale. Un suo sonetto
che ci pareva indifferente, un suo verso perduto in un sonetto, ecco, quando la memoria ha
saputo finalmente fare in sé chiarezza e accalorarlo, ci guarda, è la nostra vita più umana.”
G. UNGARETTI, Il poeta dell’oblio [1943], in ID., Vita d’un uomo. Saggi e interventi, a
cura di M. DIACONO e L. REBAY, prefazione di C. BO, Mondadori, Milano 1974, p. 406
Già, la nostra vita, più umana.
Sarebbe bella.
18 domenica Ago 2013
Ieri leggevo un racconto di Roberto Bolaño, mentre avrei dovuto studiare per l’ultimo concorso di quest’estate e mi ripetevo, sottovoce, che in fondo ne ho quasi abbastanza di questi concorsi che non so dove mi porteranno ma “è il mercato, bellezza”, eh, sì, questo mercato mi sta già un po’ sull’anima.
Leggevo questo racconto di Bolaño e c’era un sole limpidissimo e ho pensato a Mosca, a Bulgakov, al salto in alto – l’unico sport in cui, mille anni fa, trovai soddisfazione, sport difficile, saltavo con gli occhi chiusi, una bambina strana – all’amore, al bere, alla poesia.
Pensavo a tutte queste cose e cercavo di rifarmi un po’ di abbronzatura, mentre la mia pelle continuava il lento ed inesorabile processo di desquamazione – una pelle debole, complicata – cercando di nascondermi un po’ – amo nascondermi, a volte lo so fare benissimo – e più leggevo più mi dimenticavo di ciò che stavo studiando.
Ad un certo punto il protagonista del racconto: “Prima bisogna vuotare la bottiglia, disse, poi l’anima. Scrollai le spalle. Anche se io, com’è naturale, non credo nell’anima” e io ho riflettuto che spesso, ultimamente, ho creduto più alla compagnia del bicchiere che a quella dell’anima, che poi cosa sia, quest’anima, ancora non l’ho capito, ma è naturale, io non capisco mai niente.
Continuavo a leggere, e più leggevo più pensavo. Più pensavo, più mi perdevo.
Alla fine, la mia attenzione è stata rapita da una frase: “Qui non si sta male, ma non è lo stesso, se tu mi chiedessi cos’è esattamente che mi manca non saprei dirtelo. La gioia di essere vivo? Non lo so”.
Già, cosa ci manca.
Saperlo, sarebbe un bel fastidio in meno.
Il racconto si intitolava “La neve” e mi ha nascosto per qualche minuto alle cose che dovevo fare. (Il parlarne oggi, che è una domenica d’agosto, fa in modo che ci si nasconda ancora meglio).
Poi è finito, e tutto intorno sembrava tornato come prima.
Ma forse non è così.
19 venerdì Lug 2013
Posted Letteratura "fai da me", Poesia che amo, Poeti, riflessioni riflesse
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Stanotte mi sono svegliata improvvisamente.
Erano le quattro e quarantacinque, il sonno sembrava essere andato, finito.
Fuori, il rumore dei galli e delle prime auto, le ultime, forse, della sera precedente, un fresco pungente dalle tapparelle abbassate.
Non so se sia normale, ma nei minuti prima di addormentarmi, impercettibile, senza motivo, mi assale una paura, un timore oscuro, che a volte ha ragione, spesso no.
Stanotte non è stato così. Stavo bene, avrei potuto anche alzarmi, affrontare il cielo che da scuro si faceva tenue, azzurrino.
Questo vedevo da oltre le fessure. La magia del giorno.
L’estate.
Questa estate che non so ancora decifrare.
In questo lasso di tempo che ho respirato, nel buio, mi è tornato in mente un verso che non riuscivo a collocare, che mi riportava ai tempi dell’università, qualche corso lontano, che faceva più o meno così “è possibile spiegare l’estate?”
Non sapevo se l’interrogativo era presente o se si era creato nella mia mente, al bisogno. (Le domande, ah, brutto affare).
Poi mi sono riaddormentata, non assolta dai miei interrogativi.
Stamattina la risposta, in una poesia di Milo De Angelis, poeta che ho sfiorato più volte in passato, senza mai soffermarmi completamente, come in un eterno rimandare, “ti leggo domani”.
Ma la potenza di quelle parole mi era rimasta dentro.
E comunque no, non c’era interrogativo.
Quello rimane a me, che mi affatico a cercare ragioni ulteriori nei giorni, nelle distanze, nelle parole che vivo e che dovrei, forse, stringere meno, per lasciarle andare.
Una poesia durissima, in cui incombe la tragedia del nulla, o forse la tensione inesorabile ad esso.
Erano le quattro e quarantacinque. Poi ho chiuso gli occhi. “Era il mattino, nient’altro”.
“È POSSIBILE PORTARE SOCCORSO AGLI ASSEDIATI.
È POSSIBILE CAPIRE L’ESTATE”
L’inizio ci assale. Volevamo capirlo
alla velocità dei morti, perdonare
le mani, quando urlano che nessuno
udrà il fruscio di queste biciclette
tra quindici anni o un rovescio di pioggia. Questo
palcoscenico impazzito sottovoce, queste toghe
in burla che nemmeno il nostro
più storico ieri potrà recidere: nel taxi
a ferro e fuoco ecco le tappe e le abitudini
del crollo, il medesimo spavento circolare
mescolato a un valzer di spilli. Quindici isole
dopo l’infanzia. Tra poco, a Bari, aprono
le edicole. È mattino, nient’altro.
Milo De Angelis, da “Distante un padre”, 1989.