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Parole senza rimedi

~ Manuela. Una col vizio di scrivere

Parole senza rimedi

Archivi Mensili: novembre 2014

Quando spegni la luce. (Leggendo “La settimana bianca” di E. Carrère)

17 lunedì Nov 2014

Posted by mallarmeana.mb in Senza categoria

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Quando facevo le seconda Media decisi, con le mie amiche di allora, che era necessario e sarebbe stato stupendo andare insieme alla colonia estiva. In realtà io non ero proprio convinta, in realtà io sarei stata volentieri a casa, in realtà, come mi è accaduto spesso, non ebbi il coraggio di dire di no.

Avevo paura. Non avevo mai dormito fuori da sola. In montagna. Con mille altre persone in un camerone impersonale.

Avevo paura ma non potevo dire no. L’entusiasmo che pervadeva il gruppo era quello delle grandi occasioni. “Sai come ci divertiamo?”. “Poi ci sono i ragazzi.”

Già, pure quello. Io che non mi sono mai sentita un granché ero allora nel periodo nero dell’adolescenza. Capelli crespi, una vaga acne e un corpo secco secco che cresceva in altezza ma non in profondità. I ragazzi non mi avrebbero nemmeno vista.

Così fu.

Poi andai. Poi tornai, con la precisa intenzione di non farlo mai più.

“Ma come? Non vuoi più venire?”

No.

“Ma ci siamo divertite.” “Certo, sì, ci siamo anche divertite, ma no.”

Ci siamo divertite ma ho anche capito che i posti pieni di gente, pieni di amici “per forza”, pieni di sport, pieni di canti cadenzati e giochi di squadra, posti dove il silenzio è quello imposto della preghiera e del coprifuoco, posti dove non stai solo neanche in bagno, dove le famiglie perfette vengono a trovare i figli perfetti la domenica e portano anche la torta o il patè di foie gras non sono posti per me.
Naturalmente, la domenica, i miei non vennero al giorno delle famiglie perfette. Meglio così.

Ci siamo divertite perché io adoro ridere, perché la montagna era bellissima e il cielo era azzurro e dovevo divertirmi per sentirmi normale e non far trasparire che, in realtà, ero una fottutissima adolescente insicura che avrebbe scambiato volentieri la sua vita con quella della più bella della classe.

Il mondo a tredici anni può essere crudele.

Ora che sono passati molti anni, a volte, prima di addormentarmi, riprovo il vago terrore del buio, quel buio di lampioni lontani chilometri, quando la sera si doveva dormire. Quel senso del dovere che non ho mai avuto e mi porto dietro, in quei giorni di letto a castello, sopra, toccò punti di criticità assoluta.

Mi rigiravo nel letto sperando di dormire, aprivo gli occhi e vedevo il buio.

Forse fu quello, unito al fastidio per i bagni in comune, un attentato al pudore di ogni tredicenne – motivo per cui, presumo, tornammo a casa puzzando come capre montane – che mi spinse a non tornare più.

Ho preso “La settimana bianca” di Carrère alla fine di luglio, quasi a scatola vuota. Non avevo letto recensioni, non sapevo quasi nulla della storia.

Mi incuriosiva quella copertina così diversa dal solito, bianca ma con qualcosa di vagamente funereo.

Volevo leggerlo durante il lungo viaggio, in cui sapevo avrei dormito poco, che ho fatto in agosto. Poi, chissà perché, l’ho lasciato lì, preferendo altri libri, immergendomi in altre storie.

Fino al mese scorso.

“La settimana bianca” è un libro spaventoso, nell’accezione più pura del termine. Spaventoso e bellissimo. La paura che pervade il lettore è elementare e profonda, tocca corde che risvegliano sentori antichi e oscuri.

Un libro in cui c’è tanto. La difficoltà di essere adolescenti, le angosce che si trasformano in mostri che, valicando il confine dei pensieri, divengono reali. C’è una lama sottile che trapassa la pagina e colpisce il lettore. C’è soprattutto la paura.
C’è il Male che fa capolino e spazza via le poche certezze dei giorni.

La sera in cui ho finito di leggerlo mi rigiravo nel letto e pensavo alla violenza inaudita di quella luce che si spegneva, in quel lontano 1994, per tutti, alle dieci. All’acqua gelata, a quella volta che misi i miei jeans più belli e durante un momento di preghiera una ragazza me li macchiò con la cera di una candela – andati (e che palle, poi, tutta questa religione, poi.)

Ho chiuso l’ultima pagina e sentivo freddo. Sentivo l’inquietudine e un dolore che occupavano il mio cuore come una scheggia.

Per alcuni giorni non sono riuscita a aprire un altro libro.

Questa storia ha riacceso fuochi che credevo spenti, piccole ferite superficiali.

Nicolas era sempre lì, con le sue paure, che risvegliavano le mie.

Poi il nodo si è allentato, ho salutato la me tredicenne timida e l’ho mandata a dormire, tenendo le tapparelle un po’ alzate, per far filtrare la luce.

E. Carrère, La settimana bianca, Adelphi, 2014.

Elenchi.

04 martedì Nov 2014

Posted by mallarmeana.mb in Senza categoria

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Oggi sono stata dodici ore fuori di casa.
Stamattina mi sono svegliata inquieta, come non mi succedeva da tempo.
Ho spiegato verbi, scritto frasi, cercato oggetti che avevo perso.
Ho pensato anche se non avevo tempo di pensare.
Sto cercando di apprendere l’arte di scansare gli ostacoli, fare il girotondo intorno a chi si lascia divorare dall’invidia e cerca di rovinare le cose più semplici. Ma non imparo mai.
Mi sono ritagliata scampoli di silenzio nei trasferimenti in auto.
Ho guardato fuori dal finestrino: mi stupiva la sostanza del paesaggio, gli alberi così immobili e arresi alla pioggia, che ci somigliano un po’.
Ultimamente ho questa fissa per gli alberi. Li guardo, li studio da lontano.
Alcuni sono così soli che sanno di meraviglia. E forza.
Quando sono tornata, stasera, avevo la testa piena delle voci, di brusio e bambini e colleghi, avevo bisogno di silenzio.
Per recuperare le parole perse in superficie.
Così, seduta su questa sedia, sotto una luce arancione, lascio cadere le cose della giornata.
C’è solo il rumore insistente della pioggia e il disordine esploso dei giorni in cui non ci sono.
Poi ci sono gli interrogativi.
Mi domando cosa fosse la vita prima del rossetto rosso.
Cosa fosse la vita prima. Di tante cose.
Le dodici ore fuori casa, tutte scritte in faccia.
Il bisogno di dormire, di pensarci.
Fino a domani.

Perdersi (gli esami, i treni, il passato).

01 sabato Nov 2014

Posted by mallarmeana.mb in riflessioni riflesse

≈ 6 commenti

Ieri ho sostenuto un esame per cui non ero sufficientemente preparata.

Ero tranquilla come chi sa che non ha nulla da perdere. Aspettavo il treno sulla banchina, offrendo il viso a un venticello lieve, unico indizio dell’autunno in quella mattinata di sole chiaro.

Osservare il brulicare di passeggeri in attesa, vedendo passare i treni, che si assomigliano un po’ tutti, mi dava un senso di lieve entusiasmo, un battito più rapido, come se stessi facendo un tuffo nel passato.

Ad un tratto, uno di quei treni in transito, veloce e aggressivo, mi ha fatto sussultare. Mi ha spettinato, alzando un vento inquieto e cattivo, come un ammonimento.

In viaggio ho incontrato, per caso, una ragazza che doveva partecipare al mio stesso esame. Era molto giovane, con l’entusiasmo tipico di chi non ha ancora dovuto destreggiarsi con la morsa delle riforme e della burocrazia, di chi vede solo il positivo e forse non ha mai alzato il naso dai libri.

Abbiamo chiacchierato. La sua ansiosa allegria mentre mi parlava della versione di Greco, dell’amore per il Liceo Classico, della sfrenata solidarietà con i testi poco noti del Cinquecento mi hanno fatto sentire improvvisamente in difetto. La mia ostentata tranquillità, un inutile sforzo di sembrare cinica (per un certo tipo di cinismo ci vuole un’intelligenza più raffinata, che non possiedo).

Abbiamo proseguito fino alla sede dell’esame in un piacevole discorrere di autori e generi letterari, mentre, in fondo, uno strano senso di inadeguatezza mi dava un brivido. O forse era solo il percorso all’ombra.

L’atrio del palazzo era pieno di ragazzi molto più giovani di me, sorridenti, agguerritissimi. Ripassavano a alta voce, ridevano forte, qualcuno si guardava intorno.

Una ragazza mi ha sorriso, si è avvicinata e ha detto qualcosa rispetto alle opportunità che la prova poteva darle e l’assoluta necessità di superarla. Io, senza troppo indugio, le ho risposto: “Se non passiamo l’esame, vedremo”. Lei, con uno sguardo tra la pietà e il disprezzo: “Certo, per te forse è più drammatico, io sono giovane.”

Come in un sogno da cui ci si sveglia inquieti e sudati, ho capito che non volevo essere lì.

Avrei voluto scappare, o forse prendere aria, o mettermi a urlare. Invece ho messo la mia borsa in un sacchetto che è stato sigillato, mi sono registrata, ho aspettato.

Mi sono seduta e ho cercato di scrivere qualcosa di sensato su quei fogli. Ho scritto, scritto, non so nemmeno cosa, mi sentivo male, avevo voglia di andarmene al più presto. Alla fine avevo la mano indolenzita.

La concentrazione era più un’allucinata percezione del reale, in cui vedersi dall’esterno.

Le cinque ore di prova sono passate velocemente.

Quando sono uscita era buio.

I contorni delle cose che avevo visto quando ero entrata, in tarda mattinata, mi sembravano diversi, dissolti. Era un luogo sconosciuto.

Ciò che mi importava era l’aria.

Avevo quella fame di ossigeno che l’esame, gli sguardi di questi giovanotti presuntuosi e poco avvezzi alla reale forma delle cose, la stanchezza, avevano compresso, soffocato.

Ho preso una direzione a caso.

Dopo un tratto di camminata, sola, nel buio che si faceva più intenso, ho capito di essermi allontanata troppo.

Il senso dell’orientamento non è mai stato il mio forte.

Le strade piene di auto avevano lasciato il passo a stradine semi deserte.

Per un attimo, ho avuto paura. Ho acceso il telefono, spento da ore, per localizzarmi. Ero lontanissima.

Mi sono chiesta come in così poco tempo avessi potuto percorrere un tratto di strada così ampio e distante dalla mia meta.

Ero così persa, dentro, che forse è stato naturale perdere la strada.

Dopo alcuni minuti ho riorganizzato il tragitto.

La città mi sembrava più grigia del solito, meno accogliente, più solitaria e stanca.

O forse ero solo io.

Sul treno del ritorno, il capotreno strillava come un pazzo con una donna che non voleva pagare il biglietto e non accennava a rivelargli la sua residenza.

Riflettendo sulla giornata, il sapore era meno amaro di quello che avevo masticato alcune ore prima.

Una luna meravigliosa si affacciava al finestrino. Ho respirato.

Ora, la notte mi sembrava bellissima e misteriosa. Lo era.

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