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Parole senza rimedi

~ Manuela. Una col vizio di scrivere

Parole senza rimedi

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Marzo. (Il vento)

09 giovedì Mar 2017

Posted by mallarmeana.mb in Me in frammenti, riflessioni riflesse, Senza categoria, Sogni bohémien

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marzo, parole, ultime cose, vento

Marzo ha un sapore strano. Luminoso, tiepido, ci dà l’illusione che la primavera sia finalmente tra noi, con i fiori timidi che accarezzano gli occhi.

Poi, il vento. Il vento che porta con sé, o porta via. Le parole, gli anni, le persone.

Il vento che non aspetta nessuno, gioca col tempo e cancella le orme, o le sposta.

Ieri è morto un artista. Non lo conoscevo personalmente, ma conoscevo da sempre la sua opera. Da anni vedevo, quasi ovunque, i suoi soggetti, che erano diventati un segno, un simbolo distintivo della sua arte. Riconoscere i suoi quadri, il  suo mare, i campi da golf, sulle pareti di uffici, case, salotti, mi dava un senso di familiarità, di calore, come se quelle figure si fossero impresse nella mia esistenza. (Non lo conoscevo, mi mancherà.)

L’arte che sopravvive, nonostante la vita.

Oggi pensavo a queste cose, davanti a un luogo che è stato il mio luogo di lavoro, qualche anno fa.

E dicevo, tra me e me, che spesso torniamo dove siamo stati felici e ci prende un po’ di nostalgia, ma, poi, anche la consapevolezza che forse allora non si era così diversi da adesso. Come se l’essere lieti appartenesse sempre e solo al passato.

Ho camminato su una strada in salita e, tutto intorno i colori erano così forti da togliere il fiato.

Vagavo in cerca di bellezza e sognavo di ritrovare una traccia di me, dei miei passi, dei mei pensieri. Nulla. C’ero solo io e il guaito di un cane in lontananza.

C’era il vento.

Marzo ha un sapore strano. Luminoso, tiepido, ci lega al mondo come un nodo. Ci chiede di essere fiore, anche se non siamo niente.

Ho continuato a camminare, la luce si insinuava dappertutto, poi si è fatto tardi.

Mi è rimasto un fiore tra le dita.

È stato il vento, lo so.

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grumi.

04 venerdì Mar 2016

Posted by mallarmeana.mb in Me in frammenti, riflessioni riflesse, Tristissima copia

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In questi mesi ho scritto poco o niente.

È come se le parole si fossero raggrumate dentro, andando a intasare la via d’uscita. Parole come piastrine in eccesso, a fare della vita una sorta di incrostazione.

In questi mesi ho pensato alle parole e ai cambiamenti, agli arrivi, al disordine. Agli addii.

In tutto questo inventariare, mi sono persa le parole.

Allora ho osservato.

Ho scattato centinaia di fotografie. Tramonti, albe, nuvole, alberi. Tutto qui. Ma quando li riguardo, chissà come, mi sembra di aver scritto una storia.

La storia di tutte le cose che non riesco a dire, ma che riesco a vedere. O come dice cummings “la poesia che non so scrivere”.

L’altro giorno sono stata a un incontro per sistemare alcune pratiche burocratiche. Mentre ascoltavo i dettagli sulla divisione di un terreno, all’improvviso, mi è parso di sentire ancora l’odore di erba falciata e di vedermi con quel vestito bianco di sangallo, di mille anni fa.

Poco prima c’era stato un grande temporale di vento, che ho potuto solo percepire, dalle finestre chiuse. Sembrava un film muto e, per un attimo, ho pensato al passato, a come sarebbe bello riavvolgere i nastri e sciogliere i nodi.

[Ho molta paura dei cambiamenti e, a volte, mi fa rabbia la tracotanza del tempo.]

Sembrava una di quelle fotografie in cui non si vede bene il soggetto, e solo alcuni riescono a sentire qualcosa.

Assomigliava alla vita.

È stato un attimo, poi il cielo si è fatto chiaro.

Ultimamente ho scritto poco e mi manca.

Mi manca la paura di essere letta e il bisogno di essere svelata da chi si ferma tra queste righe.

Aspetto che il grumo si sciolga e le parole ricomincino a fluire. Forse è presto.

Forse.

La moneta.

26 lunedì Ott 2015

Posted by mallarmeana.mb in Me in frammenti, ovvero facete, riflessioni riflesse

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me in poche parole, nipoti, vita

Ieri ero vicina a mia nipote in una chiesa fredda e poco gremita.

Mi sono vestita poco, come accade spesso, e tremavo all’interno dell’edificio, illuminato male dalle luci al neon.

C’era una delle tante funzioni che mia mamma tiene a mente come un almanacco, come se fossero una cosa di vitale importanza per la vita di tutti, come se potessero riportare indietro mio padre, per quei quaranta minuti scarsi. Eh.

Ero vicina a mia nipote, dicevo, la più piccola, ancora per pochi mesi, e si avvicinava il momento delle offerte.

“Una moneta”, si gira verso mia sorella, che prontamente le consegna il bottino.

Mia nipote rigira questa moneta nella mano, mi guarda e, con aria di sfida mi dice “quasi quasi me la tengo”.

Mia sorella le fa due occhiacci. Alla fine la moneta cade nel cestino.

“Le danno ai poveri”, le spiega la mamma, con una voce calda e sibilante.

“Non è vero! Se le tengono loro!” Ha protestato la bambina con occhi spalancati.

Io sono rimasta in silenzio.

Guardavo mia nipote così lucida e serena e bellissima e ho rimpianto tutta la verità che non so e non sono capace di dire.

Faceva freddo. Ho salutato.

Fuori la sera era una nuvola rosa e nera, come nei disegni dei bambini.

Ho respirato l’odore di fumo e legna dei camini. Era quasi bello.

Senza rimedi

23 venerdì Ott 2015

Posted by mallarmeana.mb in Me in frammenti, riflessioni riflesse, Semiserie

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cambiamenti, childhood, Me, scuol, senza rimedi, vita

Stamattina, mentre disegnavo nell’aria triangoli e cerchi immaginari, cercando di far imparare ai bambini il nome delle forme in Inglese, ho pensato agli studi di alta letteratura che mi avevano portato fino lì e ho capito che la vita pratica ci invade l’esistenza, quasi sempre, e che la poesia non è dappertutto, ma sa nascondersi bene, dove non la diresti mai.

C’era una luce arancione e nebbiosa, creata  dal colore delle tende ignifughe che hanno installato solo una settimana fa e che ricordano l’atmosfera di alcuni sogni, di certi pensieri rimasti in sospeso.

Mentre ballavo – e speravo nessuno mi vedesse oltre a quei bambini – è suonata la sirena della prova antincendio. Qualcuno si è buttato sotto il banco, alcuni hanno capito subito.

“Siamo tutti salvi.” Mi hanno detto con un sorriso, alla fine.

“Fosse così semplice” ho pensato.

All’uscita un bambino è corso verso di me con una scatoletta blu, la tipica scatola degli oggetti preziosi.

“Guarda, è il mio dentino.”

Io ho blaterato un frettoloso: “Bravo, diventi grande” tra il sorpreso, il disgustato e il divertito, e chissà chi ha capito il mio stupore.

Mi sono mossa con la sgraziata andatura di chi s’imbarazza sempre di fronte alla tenerezza, nonostante gli anni, le lezioni, tutti i libri e tutta la letteratura.

Il sole era già alto. Senza rimedi.

“Gli anni” di Annie Ernaux (e le immagini, l’estate, i ricordi).

09 venerdì Ott 2015

Posted by mallarmeana.mb in impressionandomi, Letteratura "fai da me", libri, Libri belli, recensioni, riflessioni riflesse

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Ernaux, Gli anni

“Tutte le immagini scompariranno.” Gli anni, Annie Ernaux, L’Orma editore, 2015.

L’estate è soltanto un ricordo. Un accumulo di immagini e parole che rotolano piano verso il fondo, si fanno sedimento, spesso riemergono, ma, come spesso accade nei sogni, non si ripropongono mai come sono state veramente.

Si reinventano, ogni volta.

Luglio, caldo e feroce, bellissimo e crudele. Giorni di fiato corto e speranze brevi.

Dopo il periodo di studio, più matto che disperato, mi è finalmente capitato tra le mani “Gli anni” di Annie Ernaux.

Desideravo leggerlo da un po’, ma lo conservavo lì, da parte, per il momento in cui sarei stata finalmente libera, come fanno i bambini con i giochi più belli (spesso, poi, dimenticandosene).

Della stessa autrice avevo letto, qualche tempo fa, quel bellissimo libro che è “Il posto” di cui mi aveva colpito la perfezione della semplicità, nello stile, nella parola asciutta ma evocativa, nel racconto di una vicenda individuale che, pur lontana nel tempo e nello spazio, avevo sentito vicina, in modo quasi doloroso. (Era l’anno in cui, dopo aver vinto un concorso pubblico, avevo acquisito il mio posto da docente a tempo indeterminato in un ordine di scuola che non amavo, pensavo di dovermi trasferire lontano, sentivo il mondo della mia infanzia e adolescenza come un inutile fossile, cose così).

“Gli anni” rappresenta una sorta di viaggio nella storia individuale dell’autrice, che si intreccia inevitabilmente con la Storia ufficiale, il Novecento, con i grandi eventi, estendendosi, fino quasi a confondersi, con il racconto delle esistenze di tutti. Un viaggio con un flusso particolare, che annoda passato e futuro a un presente che pare senza forma, non praticabile.

La Ernaux ricama questa “autobiografia impersonale”, in cui è il “noi”, non l'”io” il vero soggetto, lasciandoci vere e proprie “immagini”, istantanee dei fatti, delle parole e del tempo – che si fa effimero e fragile – delle persone e dei luoghi di tutta una vita, mischiando le carte del fondamentale e del superfluo. Il tutto con un ritmo che mi ha subito avvolto, donandomi quella sensazione costante di vicinanza, quasi di “spina” conficcata nel profondo, come se quella fosse anche un po’ la mia storia, con le parole, le note, i volti che si sovrappongono nella memoria.

(E intanto, mentre le pagine scorrevano veloci, c’era chi, poco lontano da casa, se ne andava per sempre, un mattino caldo d’estate, senza nemmeno salutare.)

“Per la prima volta quell’anno ho colto il senso terribile della frase si vive una volta sola.”

Vicinanza e perdita, bisogno di “salvare”, in qualche modo, qualcosa: Annie Ernaux annota, cataloga, nomina le cose, rapisce e ferma, a tratti, il flusso del tempo, come in un immenso inventario appuntato su un foglio volante, scritto all’imperfetto, regalandoci un libro bellissimo.

“La distanza che separa il passato dal presente si misura forse dalla luce che scivola sui volti, proietta le ombre, disegna le pieghe di un vestito di una foto in bianco e nero; dalla sua chiarezza crepuscolare, qualsiasi sia l’ora in cui sia stata scattata”.

L’estate è lontana, ma le sue parole sono presenti. Le lascio scivolare sul fondo, ne abbandono alcune, ne salvo altre. Trattengo il bello, il dolore, tutto, con le unghie, sicura di non poter fermare ciò che accade.

Un autunno dalle luci tenui regala altre immagini da cancellare, lentamente.

Si può giocare con i ricordi, respirare.

Perdersi. Ancora.

Il primo post. (Due parole su “A pesca nelle pozze più profonde” di Paolo Cognetti)

06 martedì Gen 2015

Posted by mallarmeana.mb in Letteratura "fai da me", Libri belli, recensioni, riflessioni riflesse

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Cognetti, gennaio, racconti, Sofia

Il primo post dell’anno è sempre terribile.

Non che gli altri siano meglio, però, nel primo, be’, c’è sempre l’idea che uno debba metterci i propositi, le speranze, i desideri per l’anno nuovo.

Bene, io non spero un bel niente.

Gli ultimi giorni dell’anno sono stati particolarmente impegnativi.

Ho bevuto troppo, mangiato, ho avuto la febbre, una reazione allergica che mi ha mandata al pronto soccorso, sono stata molto sul mio divano, ho visto dei bei film, dei brutti film, ho visitato l’intero Polo Reale di Torino, capito che amo sempre quella città, e ho letto libri che mi sono piaciuti moltissimo.

Uno di questi è “A pesca nelle pozze più profonde” di Paolo Cognetti (Minimum Fax, 2014). Un libro che parla di racconti, del leggere racconti, del piacere di leggerli e di indagare anche cosa ci sia dietro, dentro, come se la narrazione fosse una scatola e ci si potesse mettere la mano, il viso dentro a indagarne il meccanismo, più o meno segreto.

Ammetto di amare da sempre il racconto, ho iniziato da piccola a leggerli, prima, credevo, per una forma di pigrizia, poi, invece, perché ho capito di trovarmi bene in quella dimensione che si presenta non solo come breve ma anche come “incompleta” che “comincia dopo che qualcosa è già accaduto, finisce quando qualcos’altro deve ancora accadere.” eppure così ricca, quasi magica.

Man mano che procedevo con la lettura del libro avevo voglia di leggere (o rileggere) i racconti degli autori che letteralmente si “incontrano” tra le pagine, Carver, Munro, Fitzgerald, Grace Paley, per fare solo alcuni nomi e di farlo subito, come se un’urgenza mi riportasse a un compito lasciato a metà. Come se il sentirli raccontare, cosa che Cognetti sa fare bene, li avesse improvvisamente illuminati di una luce nuova.

E c’è tanta luce in questo libro (“Come cade la luce e ci mostra il mondo, le domande nascoste dove la luce non arriva: di che dovrei scrivere se non di questo?”), c’è il fiume, c’è, a tratti, un vento freddo che sferza il viso, la montagna. Ci sono case che sembrano parlare di noi. (“La casa è un corpo e ciò che contiene assomiglia, più che all’anima, a una malattia covata a lungo e destinata […] a consumarlo.”) Potere dei racconti.

Poi c’è Sofia. Un personaggio che amo e che ho ritrovato con piacere.

C’è la sua storia che continua, ci sono nuovi dettagli, come finestre aperte all’improvviso sulla sua vita. C’è la sottile malinconia che mi lascia leggere di lei.

C’è un racconto su una schiena, che ho riletto più volte. (La schiena mi appassiona sempre, è un mio punto debole.)

Mi piace molto l’idea che un personaggio abbia un’esistenza che oltrepassa i confini di un libro. Sarà che da sempre mal sopporto i contorni troppo definiti, chi lo sa. O forse perché è bello, e basta. 

“Le cinque meno dieci erano l’ora più triste, quella in cui tornavano i fantasmi del passato.”

Ecco, come ho detto prima, non spero grandi cose per questo nuovo anno. Forse, di continuare a leggere libri così, che hanno il potere, meraviglioso, di mettere voglia di leggerne altri.

Le stelle, l’idea del freddo e la parola “siderale” in una sera di dicembre (E una citazione).

09 martedì Dic 2014

Posted by mallarmeana.mb in Me in frammenti, riflessioni riflesse

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Benioff, cielo, freddo, La città dei ladri, naso, Siderale, Stelle

Stasera sono uscita un attimo di casa – ho messo il naso fuori, come si dice – e ho visto il cielo, la Luna, le stelle fitte e fredde e ho pensato che mi era mancato, in tutti questi giorni di pioggia un cielo freddo, un vento che sferzava il viso come negli inverni di tanto tempo fa.

(Quando facevo il Liceo pensavo sempre che un giorno o l’altro mi si sarebbe staccato il naso, come si dice accada, per le parti cartilaginee, in caso di urti, a causa del freddo eccessivo. Poi ha smesso di fare freddo così e il surriscaldamento globale mi ha salvato il naso, mettiamola così.)

Il cielo stellatissimo in questo dicembre, che quasi quasi è Natale e tra poco si dovranno tirare giù i conti dell’anno trascorso e chissà cosa ci sarà da tenere e cosa da buttare.

Già dicembre. Oppure potremmo dire già, dicembre.

E di quest’anno ricordare tante cose piccole o poche cose grandi, come se fosse solo parte di un ponte iniziato chissà quando. Ancora parole, meno del solito, esami passati che ti hanno cambiato la vita e altri che te la cambieranno presto, riempiendoti le ore libere come un fluido, o un mastice. Ancora cuore che batte, ancora cambiare lavoro, cambiare persone, perdere un po’ di passione e sentirsi inesorabilmente fissi a terra, con la testa per aria.

E penso a tutto questo, mentre rifletto che questo cielo silenzioso sembra vivo e mi accorgo che mi mancava respirarlo e ne prendo una boccata forte, che fa quasi male quanto è fredda. Ma è maledettamente bello.

(E scrivo ormai troppo poco, e si vede.)

Guardare il cielo mi ha sempre affascinato. Pensare alle distanze. Agli anni luce, alla loro definizione.

“Siderale”, ad esempio, è una parola bellissima. Elegante e altera.

Ho pensato al buio nonostante le stelle e a quel personaggio.

Un po’ di tempo fa ho letto un libro sorprendente, che parla di guerra ma anche di molte altre cose, e ad un certo punto il protagonista, Lev, chiede a una giovane ragazza, cecchino infallibile della resistenza russa e ex studentessa di astronomia, la soluzione a un dubbio che ritorna più volte nella storia:

“Studiavi astronomia?”

“Sì.”

“Allora ho una domanda per te. Nell’universo ci sono miliardi di stelle, no? Siamo circondati dalle stelle. E tutte emettono luce e la luce viaggia all’infinito. Allora perché…”

“Perché di notte è tutto buio?”

“Esatto! Te lo sei chiesto anche tu?”

“Se lo sono chiesto parecchie persone.”

“Ah, credevo di essere stato il primo.”

“Eh, no” fece lei, e dal modo in cui lo disse capii che stava sorridendo.

“E allora com’è che buio?”

“L’universo si espande.”

“Davvero?”

“Mm-mm.”

“Cioè, lo sapevo che l’Universo era in espansione.” Balle. Come faceva a espandersi l’universo? L’universo non comprendeva tutto? Come faceva tutto quando a estendersi? E che cosa diventava? “Solo non riesco a capire come questo spieghi il firmamento.”

“È complicato” rispose lei.”

Il libro è “La città dei ladri” di David Benioff, e mi è piaciuto moltissimo.

È complicato, già.

Quando sono rientrata avevo freddissimo, ma stavo bene.

Perdersi (gli esami, i treni, il passato).

01 sabato Nov 2014

Posted by mallarmeana.mb in riflessioni riflesse

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Ieri ho sostenuto un esame per cui non ero sufficientemente preparata.

Ero tranquilla come chi sa che non ha nulla da perdere. Aspettavo il treno sulla banchina, offrendo il viso a un venticello lieve, unico indizio dell’autunno in quella mattinata di sole chiaro.

Osservare il brulicare di passeggeri in attesa, vedendo passare i treni, che si assomigliano un po’ tutti, mi dava un senso di lieve entusiasmo, un battito più rapido, come se stessi facendo un tuffo nel passato.

Ad un tratto, uno di quei treni in transito, veloce e aggressivo, mi ha fatto sussultare. Mi ha spettinato, alzando un vento inquieto e cattivo, come un ammonimento.

In viaggio ho incontrato, per caso, una ragazza che doveva partecipare al mio stesso esame. Era molto giovane, con l’entusiasmo tipico di chi non ha ancora dovuto destreggiarsi con la morsa delle riforme e della burocrazia, di chi vede solo il positivo e forse non ha mai alzato il naso dai libri.

Abbiamo chiacchierato. La sua ansiosa allegria mentre mi parlava della versione di Greco, dell’amore per il Liceo Classico, della sfrenata solidarietà con i testi poco noti del Cinquecento mi hanno fatto sentire improvvisamente in difetto. La mia ostentata tranquillità, un inutile sforzo di sembrare cinica (per un certo tipo di cinismo ci vuole un’intelligenza più raffinata, che non possiedo).

Abbiamo proseguito fino alla sede dell’esame in un piacevole discorrere di autori e generi letterari, mentre, in fondo, uno strano senso di inadeguatezza mi dava un brivido. O forse era solo il percorso all’ombra.

L’atrio del palazzo era pieno di ragazzi molto più giovani di me, sorridenti, agguerritissimi. Ripassavano a alta voce, ridevano forte, qualcuno si guardava intorno.

Una ragazza mi ha sorriso, si è avvicinata e ha detto qualcosa rispetto alle opportunità che la prova poteva darle e l’assoluta necessità di superarla. Io, senza troppo indugio, le ho risposto: “Se non passiamo l’esame, vedremo”. Lei, con uno sguardo tra la pietà e il disprezzo: “Certo, per te forse è più drammatico, io sono giovane.”

Come in un sogno da cui ci si sveglia inquieti e sudati, ho capito che non volevo essere lì.

Avrei voluto scappare, o forse prendere aria, o mettermi a urlare. Invece ho messo la mia borsa in un sacchetto che è stato sigillato, mi sono registrata, ho aspettato.

Mi sono seduta e ho cercato di scrivere qualcosa di sensato su quei fogli. Ho scritto, scritto, non so nemmeno cosa, mi sentivo male, avevo voglia di andarmene al più presto. Alla fine avevo la mano indolenzita.

La concentrazione era più un’allucinata percezione del reale, in cui vedersi dall’esterno.

Le cinque ore di prova sono passate velocemente.

Quando sono uscita era buio.

I contorni delle cose che avevo visto quando ero entrata, in tarda mattinata, mi sembravano diversi, dissolti. Era un luogo sconosciuto.

Ciò che mi importava era l’aria.

Avevo quella fame di ossigeno che l’esame, gli sguardi di questi giovanotti presuntuosi e poco avvezzi alla reale forma delle cose, la stanchezza, avevano compresso, soffocato.

Ho preso una direzione a caso.

Dopo un tratto di camminata, sola, nel buio che si faceva più intenso, ho capito di essermi allontanata troppo.

Il senso dell’orientamento non è mai stato il mio forte.

Le strade piene di auto avevano lasciato il passo a stradine semi deserte.

Per un attimo, ho avuto paura. Ho acceso il telefono, spento da ore, per localizzarmi. Ero lontanissima.

Mi sono chiesta come in così poco tempo avessi potuto percorrere un tratto di strada così ampio e distante dalla mia meta.

Ero così persa, dentro, che forse è stato naturale perdere la strada.

Dopo alcuni minuti ho riorganizzato il tragitto.

La città mi sembrava più grigia del solito, meno accogliente, più solitaria e stanca.

O forse ero solo io.

Sul treno del ritorno, il capotreno strillava come un pazzo con una donna che non voleva pagare il biglietto e non accennava a rivelargli la sua residenza.

Riflettendo sulla giornata, il sapore era meno amaro di quello che avevo masticato alcune ore prima.

Una luna meravigliosa si affacciava al finestrino. Ho respirato.

Ora, la notte mi sembrava bellissima e misteriosa. Lo era.

Sensibilità.

16 giovedì Ott 2014

Posted by mallarmeana.mb in riflessioni riflesse

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Ieri stavo facendo un piccolo giro di domande, l’interrogazione collettiva che mi porto dentro come eredità da un passato che ormai si è stratificato in me, un fossile scolastico. Fuori, il muro in mattoni che guardo ogni giorno da diverse prospettive, era illuminato dal sole tiepido di un ottobre inadeguato. (Troppa pioggia, troppo grigio, poco calore.) Ho aperto il libro e iniziato la litania dei numeri, delle parole e dei verbi. Ho scostato le tende, la luce filtrava in classe come poche altre volte. L’aria fresca mi dava un senso di leggera euforia. All’improvviso, senza quasi accorgermi di nulla, ho visto che la bambina interpellata piangeva. Un pianto prima sommesso, poi, nel giro di poco, disperato. Le guance rosse, le mani che tremano. La situazione mi stupisce. Prima zitta, poi la rassicuro, “non sta andando male”, dico, non so che fare. Il pianto è una di quelle cose così naturali, esplosive e violente che mi lascia sempre senza fiato. Le dico che… In realtà non le dico niente. Rimanere immobile, con una frase in gola che non riesce a uscire, è il mio modo tipico di reagire a certi eventi. Non so consolare, non sono una brava motivatrice. Penso non lo sarò mai. Le vorrei dire che non vale la pena, chiederle la ragione del pianto (non piange per me, ma chissà per quale lite di bambina, scoprirò dopo) ma poi, sospirando, l’ho guardata e, piano: “Vatti a sciacquare la faccia, se no qui piangiamo tutti.” (Come fare a insegnare a qualcuno una cosa che non si è ancora appresa? Eh.) Qualcuno ha sorriso. Io immagino la mia espressione tra lo stupore e l’impotenza. “È molto sensibile”, mi ha sussurrato all’orecchio un’altra insegnante. “Bruttissima cosa” ho pensato. (E non pensavo solo a lei.) Intanto, il sole si era fatto più fitto e caldo e dalle finestre è entrata un’ape che ha rapito l’attenzione di tutti. La bambina si è calmata, l’ape è uscita dopo alcune pericolose evoluzioni sulle  nostre teste. Mi è passata la voglia di interrogare (e di essere lì, e di tante cose che non saprei nemmeno dire.) Il vento si è fatto troppo teso, avevo i brividi e ho chiuso la finestra.

Abilitarsi.

24 giovedì Lug 2014

Posted by mallarmeana.mb in Me in frammenti, proffitudine, riflessioni riflesse, Semiserie

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abilitarsi, scuola

Ieri mattina mia madre mi telefona, la voce allarmata: “Manuela, ti hanno cercato qui, era una Segreteria, han detto che ti hanno telefonato e tu non hai risposto.” Un tono che nemmeno la Gestapo, ma si sa, l’ansia è una cosa di famiglia.
Controllo, nessuna telefonata.
Ho richiamato io e, dall’altro capo, una vocina mi ha risposto.
“Senta, io ho bisogno di sapere come si è abilitata.”
Voleva un titolo, un concorso, uno straccio di numero con data e voto.
Abilitato, che brutta parola, pensavo, mentre snocciolavo le pratiche che mi avevano portato a sviluppare, anche se non del tutto, quell’aggettivo.
Come se a abilitare all’insegnamento fosse quel pezzo di carta. E non quella volta in cui quel bambino ti ha fatto la cacca sulle scarpe, o quell’altra in cui Lei ha scritto “ciao” col mouse nonostante la tetraparesi spastica, e ti ha sbavato su tutta la manica ma non importava, o quella volta in cui, alla tua prima supplenza con i “Grandi”, ti hanno appeso un poster porno e tu hai continuato a spiegare la Prima Guerra Mondiale come se nulla fosse, o quella volta in cui hai capito di aver involontariamente e irrimediabilmente deluso un gruppo di ragazzi a cui volevi bene, e hai pianto, quando ti sei sentita inadeguata, o quella volta in cui: “prof, abbiamo comprato quei libri perché ci è piaciuto come ce ne ha parlato lei”.

Certo, bisogna studiare, prepararsi, sgobbare, sudare. Ma ci sono cose per cui non ci si abilita mai.

Intanto, mentre il coccodrillo retorico dei giorni passati scorreva nella mia mente, la segretaria rispondeva con un: “Grazie, ma sono ancora molto confusa.”
Forse è vero, non ci si abilita mai abbastanza, non si è mai abbastanza capaci.
Ho chiamato mia madre, per rassicurarla.
Le ho spiegato tutto. Lei naturalmente ha detto “Ah, sì.”
Ma probabilmente non ha capito niente.

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