Sono mesi che leggo poco, scrivo poco, vivo poco o giù di lì.
Sono mesi che cerco di giustificare cosa stia facendo.
“Cosa fai?” “Studio”
“Ah, ma non insegnavi?” “Sì, insegno.”
“Ma allora…”
Ma allora niente, c’è che studio di nuovo perché forse non mi piacciono le cose comode, o perché mi piace variare. O forse perché non lo so nemmeno io. A volte credo che la mia indole di quartogenita sia una tara che porta all’estrema ricerca del proprio posto. Senza grandi risultati.
Studio, viaggio, respiro, coltivo brividi che mi raggiungono inaspettati, conservo lacerti di discorsi e parole, dormo poco, mi arrabbio molto, bevo quanto basta per amplificare le mie ansie quando l’effetto di ebbrezza primaria si esaurisce.
Continuo a spiegare che lo faccio perché ha un senso, perché lo stipendio è importante ma niente, non capiscono. Vedo gli occhi come acquari in cui galleggiano le mie parole e allora smetto.
Respiro.
Desidero momenti in cui non ti chiedano più “Cosa fai?”
Desidero.
L’altro giorno ho rimesso mano a “Le città invisibill” di Calvino. L’ho riletto, sono andata a fondo, mi è sembrato così diverso dalla prima volta. Più bello, forse. O no. È successo che le parole mi si sono appiccicate addosso, luccicavano al sole sulle braccia indifese, nude per la prima volta, in questa primavera fredda.
Mi accompagnavano, mi rincorrono ancora adesso.
Ma forse è solo stanchezza. O la voglia di portarle con me.
” […] a chi si trova un mattino a Anastasia i desideri si risvegliano tutti insieme e ti circondano.”
Deve essere proprio così.