“Le persone sono corpo, massa e raffiche di idee incontrollabili.” L. Brancaccio – Stanno tutti bene tranne me.
Un giovedì di novembre.
Un pomeriggio strano. Una telefonata inattesa, tensioni, nodi burocratici ed incombenze. Dubbi sospesi.
Una chiavetta persa, il lavoro di anni, le foto dell’ultima vacanza in balìa di qualche mano sconosciuta, altrove.
Una pila di compiti da correggere grida vendetta dalla scrivania. Un freddo acuto mi prende alle braccia, al viso. Dovrei vestirmi di più.
Invece di lavorare prendo in mano quel libro.
Mi sono ripromessa di non leggerlo subito. Ho finito da poco “Dieci dicembre” di George Saunders (Minimum Fax, 2013) e ne sono ancora invaghita, presa, sorpresa. Mi manca. (Chissà se riuscirò a scriverne qualcosa, mi ronza nella testa da giorni ma non ho le parole, non quelle che vorrei.)
Poi invece lascio definitivamente il compito che ho tra le mani. Inizio a leggere.
“Stanno tutti bene tranne me”, di Luisa Brancaccio.
Quando l’ho acquistato non sapevo bene cosa mi aspettasse, mi suonava particolarmente familiare il titolo.
Stanno tutti bene. Tranne me. (Quante volte l’ho pensato, presa da me soltanto.)
Poche pagine e sono lì, con Margherita, ne immagino il viso, i gesti lenti, la fame di sonno e di realtà oltre l’apparenza, le storie che si intrecciano alla sua, la difficoltà del quotidiano. Immagino lo psicanalista, i cani, i figli e i mariti, gli orti, il dolore. Questo lo sento direttamente sulla pelle. Si tocca, si accarezza. Un pugno nello stomaco. Un dolore così “normale” (“Il dolore è come deve essere, sordo e pulsante, come di ossa rotte”) che traspare dalle pagine e potrebbe essere tuo. Lo vivi. Distrugge e si può superare, si tira fuori e si libera, diventando altro da sé, qualcosa di nuovo, vitale.
Le parole trascorrono veloci e mi prendono nel vortice, ed è una morsa fisica. Alcune immagini si appiccicano addosso, vischiose, ed altre scivolano leggere come le foglie che si agitano, in giardino, in una notte di luna piena (ed io son sulla panchina con ragazza, cane e psicanalista).
Continuo a leggere, mi fermo. Ad un certo punto anche io mi spezzo, a metà, con Margherita.
Ho le mani fredde, tremo, dovrei mettermi una maglia, ma la forza di una scrittura così potente, forte e delicatissima insieme, mi impedisce di smettere, nonostante sia sola in casa e debba finire delle cose al più presto.
“Il pomeriggio è ancora lì, grigio e silenzioso, liquido come mercurio.”
Le parole sono lì, le vedi, le puoi sentire. Dicono tutto.
Mi toccano, lambiscono i pensieri, colpiscono come schiaffi.
“Pensare. Ricapitolare tutta la felicità dissolta nella vita quotidiana.”
Ed io continuo a seguire l’oscillare di queste vicende, il loro sfiorarsi tra la normalità e l’abisso.
Quando arrivo all’ultima pagina so già che mi stanno mancando anche queste storie. Le fisso in un’istantanea, le porto dentro.
Vado a dormire e sto bene, banalmente bene. Ho il cuore che batte forte, la schiena un po’ inarcata, in tensione.
Un po’ di tempo fa parlavo con una persona che mi ha detto: “Non esistono libri tristi. Esistono libri con momenti tristi.”
E spesso sono bellissimi.
Luisa Brancaccio, Stanno tutti bene tranne me, Einaudi, 2013.